Inclusione sociale, il Nasdaq prova una svolta

La stragrande maggioranza degli attori della finanza internazionale è costituita da uomini: il genere femminile è estremamente sotto-rappresentato nel mondo della finanza. Così in tutte le borse mondiali e gli Stati Uniti, in questo senso, non fanno eccezione.

La richiesta di inclusione sociale riguarda le donne ma anche le minoranze

È per questa ragione che la National Association of Securities Dealers Automated Quotation, nota a tutti con l’acronimo Nasdaq – indice dei principali titoli tecnologici di Wall Street – ha deciso di operare una svolta. Il 6 luglio del 2020 – nel corso di una cerimonia che è stata organizzata in pompa magna, tanto da essere trasmessa in diretta su un maxi-schermo a Times Square – la Borsa americana dei titoli hi-tech aveva voluto mostrare la propria sensibilità sulle questioni di genere e sui diritti delle minoranze. Invitando la National Association for the Advancement of Colored People: la più importante organizzazione di difesa dei diritti dei neri statunitensi.

All’epoca, il mondo era attraversato dalla mobilitazione battezzata Black Lives Matter, in seguito a gravi episodi di violenza da parte della polizia nei confronti di cittadini di colore. Alcuni mesi dopo, il 1° dicembre, l’operatore ha proposto alla Securities and Exchange Commission (la SEC, organismo di controllo finanziario equivalente alla Consob italiana) di introdurre regole che impongano obblighi di inclusione sociale a più di 3mila imprese americane.

Inclusione sociale, il Nasdaq prova la svolta

Tre donne ai vertici di Nasdaq, NYSE e Tesoro americano

Inclusione sociale significa superare il “classico” rispetto di quote per donne e minoranze nei consigli di amministrazione. La proposta prevede che tutto sia il più possibile alla luce del sole: dovrebbe infatti essere imposta la pubblicazione di statistiche trasparenti in materia, al fine di poter controllare che alle promesse seguano anche fatti concreti.

In generale, secondo la società di audit Deloitte, nelle cento più grandi aziende degli Stati Uniti soltanto un quarto delle poltrone nei consigli di amministrazione è occupato da donne. C’è da dire che sia il Nasdaq sia il New York Stock Exchange (NYSE) sono diretti da donne: Adena T. Friedman nel primo caso, Stacey Cunningham nel secondo. Allo stesso modo, il nuovo presidente Joe Biden ha scelto per la poltrona di segretario al Tesoro l’ex presidente della Federal Reserve, Janet Yellen. Ma si tratta di casi ancora troppo sporadici.

Genere: dati poco confortanti in Europa e Giappone

Anche in Europa la situazione non è particolarmente confortante. Nel mese di febbraio del 2020, l’Autorità bancaria europea (EBA) aveva chiesto agli istituti finanziari di impegnarsi maggiormente sulla questione della parità di genere: «Secondo gli ultimi dati disponibili relativi al settembre del 2018 – aveva indicato l’organismo di vigilanza – il 41,61% non ha adottato politiche di incentivo alla diversità. In particolare, la rappresentazione delle donne negli organismi dirigenti è ancora relativamente debole e molte realtà non presentano parità di genere in seno ai consigli direttivi». Tra i dirigenti, nel 2018 la quota di donne non superava il 15%. Certo, in aumento rispetto al 13,6% del 2015, ma comunque a livelli assolutamente inaccettabili.

Ancora peggiori sono i dati di un’altra grande economia (e piazza finanziaria) mondiale: il Giappone. Malgrado i tentativi dello Stato, negli ultimi anni, di adottare normative ad hoc, finalizzate a favorire l’attività economica delle donne, il Paese si è classificato al 110mo posto su 140 nell’indice sulla parità di genere del Forum economico mondiale. Lo scarto in termini di salario tra donne e uomini, inoltre, è stato pari nel 2018 al 24,5%: il secondo dato peggiore tra i Paesi dell’OCSE, battuto solamente da quello della Corea del Sud.

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